Domenica 19 aprile 20 Ottavo giorno
Cari soci e amici dell’Amcor,
la Liturgia di domenica prossima ci presenta questa immagine della prima comunità cristiana come “perseverante nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (Atti 2,42).
E’ questa perseveranza che vogliamo ci guidi nell’ascolto della Parola di Dio attraverso il percorso che Don Giuseppe Ghiberti ci offre aprendoci la sua mente e il suo cuore così vicini al Signore.
Per aiutarci nell’ascolto, questa settimana dividiamo in due la riflessione e la preghiera sulla Parola di Dio. Il primo incontro relativo alla prima e seconda lettura (Atti e Prima lettera di Pietro) qui allegato, e il secondo momento, subito dopo, con l’approfondimento dell’intensissimo brano di San Giovanni (20, 19-31) sul quale Don Giuseppe ha passato tanto tempo della sua vita in raccolta riflessione e preghiera.
Un abbraccio.
Contardo Codegone
Settimanale Amcor
19 – 4 – 2020 Ottavo giorno
PASQUA DI RISURREZIONE Anno A
Letture: Atti 2, 42-47; 1Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31. Gesù risorto dà inizio a quell’interminabile tempo della Chiesa che parte dalla sua risurrezione e termina quando “Gesù Cristo si manifesterà”, come predice San Pietro. Il brano evangelico segna il momento fontale di questo evento, che cammina nel presente, professando una fede sostenuta dallo Spirito fino al raggiungimento della “meta della nostra fede”. E’ orientativo l’esempio della prima cristianità, a Gerusalemme, sorretta da “speranza viva”, impegnata nell’ “insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nella preghiera”.
Qualche insegnamento dalle letture: partendo da quanto Giovanni ci narra della grande settimana della Pasqua di Gesù (Vangelo), incontriamo la sintesi descrittiva della vita della prima comunità cristiana (“perseverante nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere”) formatasi alla Pentecoste (racconto degli Atti) e seguita nel suo cammino quotidiano, in preparazione al momento in cui ci sarà dato – “mediante la resurrezione di Gesù Cristo dai morti” – di raggiungere la meta della nostra fede, la salvezza delle anime (seconda Lettera di Pietro)
Otto giorni dopo: In otto giorni accadono tante cose: la Bibbia riassume in un racconto simbolico l’intera opera della creazione in otto giorni; San Giovanni scandisce gli avvenimenti all’inizio della vita pubblica di Gesù in otto giorni, dal battesimo al Giordano fino al primo “segno” della gloria di Gesù alle nozze di Cana. All’estremità opposta del racconto evangelico giunge la grande settimana dell’unico eterno “segno” di Gesù risorto, in un dialogo “costitutivo” con i suoi apostoli, settimana anch’essa costitutiva per la vita della Chiesa, per i destini di tutta la storia della famiglia umana. Oggi ci viene offerto questo racconto, denso d’una densità impenetrabile, dolce della dolcezza umana, infinita, del nostro dolce “Signore mio, Dio mio”. E noi siamo commossi per la adorabile paziente e sorridente dolcezza di quel Signore che parla ai dieci discepoli radunati “sotto clausura” (le porte sono proprio sbarrate) e poi a quel provvidenziale “testone” (perdonatemi il titolo, ma mi sembra il più adatto!) che è Tommaso. Gesù certamente sapeva quanti fiumi di inchiostro sarebbero stati versati per sviscerare sotto mille punti di vista la complessità di questo testo; e avrà certamente sorriso. Noi gli chiediamo che a ognuno di noi, che leggiamo e sentiamo, continui a sorridere, a farci capire qualcosa della inesauribile densità di ricchezze di quel racconto, del mistero che comunica, della partecipazione che ci chiede. Dunque le porte sono chiuse, in quel luogo imprecisato (il Cenacolo?), la sera di quel giorno successivo al sabato, quando già erano accadute tante cose al sepolcro di Gesù e la Maddalena era già venuta proprio lì, a riportare un messaggio di quel Gesù che lei aveva rivisto. Ma il clima non è tuttavia esaltante: fuori c’è buio e dentro ancora sempre paura dei nemici. Gesù si fa presente, senza aprire le porte e fa subito il grande regalo: dice e dà “pace a voi”. Mai una pace è stata più ricca e sincera, appoggiata su solido fondamento; e Gesù completa il dono mostrando le mani e il costato, che portavano i segni dei tormenti della crocifissione: lui è vivo, ma è sempre e per sempre il crocifisso risorto (Marco – 16,6 – riporterà l’annuncio del messaggero celeste proprio con quell’espressione: “”Voi cercate Gesù il Nazareno, il crocifisso: è risorto”). A questo punto giunge la gioia dei discepoli e, subito di rincalzo, tre frasi di Gesù, che solo l’eternità sarà sufficiente per avvertirne l’immensa portata: sono altrettanti misteriosi doni, che sono preceduti ancora da un “Pace a voi”, quasi garanzia e incoraggiamento. Poi la trasmissione della missione di Gesù agli apostoli, il dono ineffabile dello Spirito e in fine il potere di rimettere i peccati.
Carissimi, facciamo finta di conoscerli bene i contenuti di questi doni e ci ripromettiamo di riprendere alla fine la riflessione su di essi. Siamo ancora alla ‘domenica’ di Pasqua e di quanto accade in quella settimana sappiamo soltanto che Tommaso è tornato nel gruppo apostolico e si è sentito subito riferire il grande evento della ‘domenica’ della risurrezione di Gesù. E lui, un po’ piccato e un po’ testardo, oppone dei bei ‘no’: se non vedo e non tocco, non crederò. Ma questa non è una pretesa giusta e ci vuole proprio tutta la bontà paziente di Gesù, che ricompare alla ‘domenica’ successiva, per dargli soddisfazione nelle sue pretese e concludere: “e non essere incredulo ma credente”. E Tommaso cede completamente e prorompe in una grande professione di fede, che chiude tutta la vicenda evangelica, il cammino percorso da lui e da tutto il corpo apostolico in quel breve tempo che li aveva visti vivere gomito a gomito con Gesù: “Signore mio e Dio mio!”. E’ il momento positivo di tutta la vicenda evangelica e Gesù lo suggella con l’ultima affermazione, che è anche una beatitudine: “beati coloro che non vedono, eppure credono”. Seguono ancora due versetti, che concludono questo racconto e contemporaneamente tutto il vangelo, concepito già, qui, non più solo come “buona notizia” ma come libro scritto: il motivo per cui sono stati scelti e scritti questi “segni” compiuti da Gesù – scelti fra molti altri – è di suscitare la fede in Gesù il Cristo, il Figlio di Dio, per raggiungere, attraverso la fede, il possesso della vita eterna nel suo nome. Finisce così uno dei libri più preziosi e cari di tutta la storia dell’umanità. E per noi, che portiamo in noi tutti qualche tratto di Tommaso, giunge lo stesso invito a credere, affidando mente, cuore e programmi operativi a quel Signore e Dio, fratello amoroso, mandato fra noi dal Padre. Noi rispondiamo a quell’invito con la fede di chi si fida, accetta il mandato che il Risorto gli ha affidato e si abbandona a disposizione di quello Spirito che, anche attraverso la nostra povertà, offre al mondo la testimonianza di una salvezza che giunge a noi grazie anche alla nostra risposta di abbandono fiducioso. I nostri peccati sono ostacolo a questo programma, ma Gesù ha “soffiato” lo Spirito sugli apostoli perché, nella Chiesa, possano incessantemente esercitare contro il peccato una lotta portatrice di vittoria.
2^ parte– Giovanni 20,19-31
Quanta ricchezza di dono in quella ‘domenica di Pasqua’! Cari amici, sorelle e fratelli, mentre scrivo spontaneamente le parole ‘domenica di Pasqua’, mi accorgo che sono tutte assenti dal nostro brano di vangelo e mi dicono come abbia fatto strada anche la lingua dei credenti: ‘domenica’ è il ‘giorno del Signore’, ‘Pasqua’ è il nome di una festa che veniva celebrata da tempo dal popolo di Gesù e da Gesù stesso, ma che da quell’anno, da quell’Evento, acquistò un significato molto più ricco, pieno. Conosciamo il nome dell’evento: risurrezione di Gesù, di colui che è stato e si è fatto conoscere come il “Crocifisso Risorto”. Il Risorto sconfigge la morte e il peccato che l’ha causata, ma continua a portare nella sua santissima umanità i segni della passione che l’ha condotto alla morte. Sia Giovanni sia Luca ricordano la presenza di quei segni, che per sempre stanno davanti alla consapevolezza dell’umanità intera a testimonianza di quanto amore ci sia stato nella vicenda di Gesù tra noi e di quanto grande sia il male che ha causato quella sofferenza.
Questo Gesù, fratello benedetto, l’abbiamo lasciato, la sera del giorno delle grandi apparizioni (“il giorno uno dei sabati”, nell’espressione standard usata da Giovanni già al v. 1 del c. 20), nella casa dove erano radunati tutti gli apostoli, a eccezione di Tommaso. Gesù offre subito il dono della pace, mostrando le mani e il costato. E’ così buono Gesù e non presuppone nulla, ma viene incontro al discepolo con un esubero di doni: pace e manifestazione fisica della sua umanità, con ancora i segni dello scempio ricevuto due giorni prima. E poi ancora, subito, rinnova il dono della pace e la concretizzazione nell’incarico della missione, nel dono dello Spirito, nel potere di combattere efficacemente i peccati. L’ordine ci stupisce un po’, perché avremmo detto che bisogna anzitutto avere ricevuto lo Spirito per potere esercitare la stessa missione di Gesù e, nella forma più problematica, vincere quel peccato che è stato il grande nemico del piano di Dio e del cammino dell’uomo. Ma è meglio non… andare a insegnare a Gesù e restare nell’ordine scelto dal narratore più fidato che Gesù poteva darci.
La missione (“Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”). Tutti gli evangelisti ci attestano la volontà di Gesù di coinvolgere gli apostoli nel suo “compito” missionario. Già l’evangelista Marco (3,14) dichiarava che Gesù chiamò i dodici “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Ora però egli fonda la loro missione sulla sua propria missione, con una identificazione veramente da capogiro: come è possibile che quei poveretti (ma siamo tutti poveretti: noi non saremmo stati meglio di loro!) siano destinatari di quel “come”? Lui è il Figlio, l’amato per eccellenza, l’esecutore perfetto dei voleri del Padre. Certo, entra a questo punto il mistero inesauribile e insondabile del rapporto unico tra il Figlio eterno e il Padre ma, anche mettendoci nella situazione degli apostoli nel cenacolo, ci rendiamo conto della differenza abissale tra il rapporto di Gesù col Padre e il nostro. Eppure Gesù dice: “come”! Dunque con le stesse caratteristiche di provenienza, motivazione, finalità, contenuti, prospettive – e anche garanzie. Chi ha in memoria la ricchezza del racconto di Giovanni nel suo vangelo pensa istintivamente a quanto Gesù abbia insistito sulla missione che egli stesso ha ricevuto dal Padre. Essa è il fondamento di tutto il suo amore, la sua adesione alla volontà del Padre, la motivazione e il successo delle sue iniziative. Certo egli può dire in modo unico che “io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30), ma se questo evidentemente non si può dire allo stesso modo per i suoi discepoli, è garantita però una adesione unica alla vita divina da parte dell’inviato.
Ci sembra, guardando la storia, che quella parola sia stata tanto utopistica: che cosa hanno prodotto gli inviati di Gesù? che cosa ha prodotto la storia, anche là dove la Chiesa affermava di agire mandata da Gesù, con uguali obiettivi e poteri? Potremmo continuare, tormentandoci senza concludere. Gesù ha mandato “come” e lui per primo ha raccolto tanti insuccessi. Ciononostante la consapevolezza di essere mandati da lui, è tanto consolante: non vedo i frutti se non in quantità e modi ridotti, ma mi so mandato come lui, con lui, dunque non sono solo e lui è il sovrano che guida la storia, senza violenze e senza cedimenti. Per me e per tutti noi suoi discepoli la consapevolezza di essere con-per-come lui è di grandissima consolazione e consapevolezza: non siamo soli, tutto ha un senso, un frutto.
Lo Spirito (“Ricevete lo Spirito Santo”) – Gesù risorto “soffiò”, per concedere il dono dello Spirito. All’inizio della Bibbia Dio, che aveva creato tutto e anche preparato l’uomo “con polvere del suolo”, soffiò un alito di vita nelle narici di quell’essere inanimato “e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7). La prima traduzione della Bibbia portò il testo ebraico nella lingua greca, lanciandola in tutto il mondo mediterraneo, e al tempo del Nuovo Testamento fu proprio il greco la lingua scelta dai missionari cristiani ebrei per la loro predicazione. Il Nuovo Testamento, nato tutto in greco, tenne molto presente quella traduzione dell’Antico Testamento, che veniva sempre citato. E’ molto significativo il fatto che sia per la creazione iniziale dell’uomo sia per il dono dello Spirito da parte di Gesù ricorra lo stesso termine, che è assai raro in tutta la Bibbia greca: “soffiò”. Si impone la conclusione: Giovanni è attento a riportarci la parola di Gesù per farci notare il ritorno dello stesso dono: in funzione della vita umana nella creazione di Adamo e della vita di quel corpo di inviati (discepoli) che cammineranno ora sulle orme di Gesù.
Ma che cosa o chi è il protagonista di quel dono così prezioso da essere oggetto di un intervento tanto importante? Giovanni ce lo presenta la prima volta nelle parole del Battista, che lo vede scendere su Gesù il giorno del battesimo, mentre riceve la rivelazione che Gesù sarà colui che battezza in Spirito santo (1,33); e da quel giorno lo Spirito sarà sempre unito all’opera di Gesù, a cui il Padre “lo dà senza misura” (3,34). Parlando con la Samaritana, Gesù pronuncerà una quasi-definizione: “Dio è Spirito” (4,24), che né la sua interlocutrice e neppure noi riusciamo a penetrare. Si avverte solo che la natura del Dio uno è realizzata nella presenza di più persone, operanti in un dialogo beatificante. Ed è vero, perché frequenti sono le affermazioni della comunione di natura del Padre con il Figlio e con lo Spirito. Noi comprendiamo così poco, ma avvertiamo, mentre pronunciamo queste parole, il contenuto ineffabilmente beatificante di un mistero di vita, della Trinità. Ma il nostro ineffabile, buono, Signore Gesù si preoccupa di farci aprire alla fede nel dono dei doni che sarà lo Spirito stesso. “Le parole che vi dirò sono Spirito e vita” (6,63). Incomincia a farsi strada la comprensione dell’unione della parola di Gesù con lo Spirito. E ce ne sarà tanto bisogno, perché presto Gesù non sarà più visibilmente con i suoi, ma lascerà accanto a loro quello Spirito a cui darà il nome di Paraclito (‘chiamato presso’ i discepoli), che sarà la presenza di Gesù mentre Gesù è assente. Egli sarà spirito di intelligenza d’amore, perché essi accettino e interpretino rettamente l’insegnamento che Gesù lascia loro e perché partecipino attivamente a quel processo giudiziario che il mondo, la somma di tutte le forze demoniache, intenterà contro la persona e l’opera di Gesù. “Il Paraclito darà testimonianza di me – dice Gesù – e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio” (15,26-27). Gesù prevede la storia futura come un continuo processo intentato dalle forze del male, demoniache, a quelle del bene, che collaborano alla redenzione portata da Gesù. Ognuno di noi è chiamato a prendere posizione, ma non siamo soli! Dobbiamo esserne consapevoli e sfruttare l’aiuto che ci viene dallo Spirito; dobbiamo coltivare l’amicizia con questo ospite dolce, fonte di tanta luce e forza.
La remissione dei peccati (“Saranno rimessi”) – Il mistero non si dirada e il dono continua a essere infinitamente grande. Non avevamo più sentito parlare di peccato, nel nostro vangelo, da quando Gesù disse a Pilato: “chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande”. I protagonisti sono dunque il detentore dell’autorità romana e i capipopolo ebrei. Ma tutti possono entrare in questa triste famiglia e il riferimento è sempre a Gesù, quando non venga ascoltato, venga combattuto. E il contrario del peccato è la fede in Gesù, vissuta come accettazione di mente e cuore. Un momento molto efficace in questo insegnamento è offerto dal dialogo di Gesù con quei maestri ebrei che non vogliono accettare il messaggio proveniente dalla guarigione del cieco nato: ai farisei che domandano a Gesù: “Siamo ciechi anche noi?”, egli risponde: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane” (9,41). E’ questa la radice del peccato: pretendere di vedere, di determinare noi quale è il nostro bene, qui, ora, e volerlo affermare e ottenere usando i mezzi che piacciono a noi. Senza accorgercene, ci mettiamo al posto di Dio. Questo comportamento porta con sé la scelta: il mio volere, non quello di Dio, anche se questa preferenza costa la vita al Figlio amato del Padre: Lui paga per noi. Non vorrei mai usare questa parola, “paga”, ma se guardo la croce, mi rendo un po’ conto di quel che è costato a Gesù ciò che io preferisco. Gesù a volte usa “credere” con lo stesso senso di preferire: “Se non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati” (8,21), cioè se non date a me la stessa fiducia, lo stesso abbandono di intelligenza e volontà.
Nel corso del vangelo il peccato viene affrontato e vinto da Gesù, “agnello che toglie il peccato del mondo”. Giunti alla fine, però, Gesù risorto dà ai Dodici (in questo momento solo dieci), che hanno ricevuto lo Spirito Santo, il potere di perdonare i peccati. E’ una parola dal peso enorme: Gesù non dichiara che i suoi possano intervenire a piacere per togliere il peso del peccato, perché affida questo potere, chiedendo che sia esercitata una verifica selezionatrice. Il discepolo deve rendersi conto che in chi chiede il perdono ci sia la condizione per quel perdono, che cioè sia scomparso l’atteggiamento preferenziale al peccato e si dimostri la serietà di chi desidera il perdono: il peccatore può sentirsi debole, ma non può giocare a chi vuole essere amico mentre ha tutt’altra intenzione. Molto di questo istituto del perdono voluto da Gesù sarà ancora da chiarire e il cammino della comunità dei discepoli troverà presto i criteri di realizzazione pratica, adattando l’esercizio anche a usanze e condizioni di tempi e luoghi diversi, ma la base di quel potere ha origine nella volontà misericordiosa del Risorto.
Vostro Don Giuseppe Ghiberti