Domenica 2-5-21 V Domenica di Pasqua – “Settimanale Amcor”
Cari soci e amici dell’Amcor,
continua il periodo pasquale e la prima lettura che ci viene proposta è un brano degli Atti degli Apostoli, e non dell’Antico Testamento, perché questo è il periodo della prima Chiesa ed è bene seguirla nel suo cammino nella storia.
E’ un cammino sul quale veglia lo Spirito, ma che non è privo di difficoltà. Paolo fatica a farsi accettare, crea disagio, per il suo passato e forse anche per la sua visione anticipatrice di un annuncio della Buona Novella anche ai pagani. Don Giuseppe, con un sorriso, sottolinea che dopo il ritorno di Paolo nella sua Tarso, vi è pace in “tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria”.
Che ricchezza di contenuti e di spazi per approfondire, per cogliere la dinamicità di messaggio in questi tratti di vita dei primi apostoli che con le loro scelte hanno segnato il cammino della Chiesa.
Ora il Vangelo ci propone un brano dei discorsi di addio di Gesù. Domenica scorsa Egli affermava: “Io sono il buon pastore”, questa domenica afferma: “Io sono la vite vera”.
Avevamo colto il valore della traduzione dal greco di “buon pastore”, che poteva anche essere resa come “bel pastore”, arricchendone il significato.
Questa domenica, parlando del Padre, Gesù dice: “… e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.” Ed anche in questa occasione il verbo originale in greco (kathaireo), reso ora con “lo pota”, ha anche il significato di “lo purifica”.
Anche qui l’approfondimento testuale arricchisce il significato, da un senso di durata all’intervento del Padre, invita a riflettere.
Il Salmo (Sal 22/21) di questa domenica, nel suo integrarsi di significati, ci invita a riflettere. Esso si presenta diviso chiaramente in due parti. La prima esprime (vv. 1-22), con forza, il lamento di un innocente perseguitato. La seconda (vv. 23-32) esprime il canto pasquale di ringraziamento del giusto per la sua liberazione.
La prima parte comincia con il grido lacerante che Gesù ripeterà sulla croce:
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22/21, 1)
La seconda parte si conclude con la lode e l’adorazione che sono cantate, per l’eternità della vita, di fronte alla adunanza universale di tutti i popoli davanti al Signore:
“ma io vivrò per lui, / lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene / annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno: ‘Ecco l’opera del Signore!’” (Sal 22/21, 31-32)
Gustiamo la forza e l’iridescenza della Parola che la liturgia ci offre perché il nostro cammino di fede non si fermi per le difficoltà, ma cresca nel desiderio e nella vicinanza al Signore.
Un grande e affettuoso abbraccio.
Contardo Codegone
Settimanale AMCOR
V DOMENICA di PASQUA 2 -5 – 21
Letture bibliche: At 9, 26-31; 1 Gv 3,18-24; Gv 15, 1-8
Nella prima lettura, dagli Atti degli Apostoli, incominciamo, in questo anno B, a fare conoscenza con San Paolo. Gli Atti degli Apostoli hanno appena finito di raccontare la vicenda misteriosa della conversione di chi era stato persecutore. Paolo da Damasco (dove aveva ricevuto il battesimo) giunge a Gerusalemme, dove però i ricordi della sua rabbia anticristiana sono ancora vivi. Nell’antica capitale per fortuna qualcuno (Barnaba) si preoccupa di garantire per lui presso i capi cristiani, in modo che Paolo può iniziare subito un’attività di predicazione fin troppo efficace. E questo non piace a quelli che non erano già stati d’accordo con Gesù prima. A questo punto i cristiani di Gerusalemme, per evitare rischi, pensano di allontanarlo per un po’ e Paolo torna a quella che doveva essere stata la sua città natale, Tarso. Luca dice che questo porta pace alla chiesa di “tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria”. Ci viene un sorriso: bisogna mandare via i fratelli più attivi, per trovare pace? Ma la provvidenza di Dio segue vie che solo essa conosce.
Nella seconda lettura ci accompagna ancora San Giovanni con la sua prima lettera. Egli vuole insegnarci a coltivare la “comunione con Dio” e ripete in vario modo concetti semplici e altissimi: “non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. E ripete il binomio dei due comandamenti riassunti in uno: “che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri”. Non è – nonostante le apparenze – la cosa più semplice: “in questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. E’ il grande dono che continuiamo a impetrare continuamente: l’attenzione a quello Spirito che ci garantisce la presenza di Gesù, specialmente quando la tribolazione della fede è particolarmente grave.
Anche il brano evangelico è tratto da San Giovanni e ci presenta la similitudine della vite e dei tralci. Gesù si serve dell’esperienza contadina anche per un’altra similitudine, quella del buon pastore. Ambedue portano tipici insegnamenti sulla persona stessa di Gesù: “Io sono il buon pastore; io sono la vite vera”. Poi gli sviluppi sono coerenti all’argomento.
Nella vite c’è il tronco con i suoi tralci e poi, a tempo giusto, i frutti. Ma il tronco bisogna curarlo, se si vogliono ottenere quei benedetti frutti. Gesù riassume questo impegno ripetendo cinque volte la raccomandazione di “portare frutto”, molto frutto. Il quadro non è complicato e ce lo spiega Gesù stesso: nella vicenda della vite c’è un agricoltore, il Padre (di Gesù e di tutti noi), c’è una vite “vera”, che è Gesù stesso, e poi ci sono i tralci, che siamo noi. Tutto questo esiste per ottenere un movimento di vita, per produrre frutti. Ma questo ha le sue esigenze: che si lavori sulla vite, magari in modo un po’ doloroso, come è appunto l’impegno della potatura. Da come parla Gesù, si vede che non mancano difficoltà: specialmente che si accetti di rinunciare a quell’esubero dei tralci che impediscono alla vite di portare tutto il suo frutto. A queste condizioni si porta molto frutto e si diventa discepoli di Gesù.
Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, … senza di me non potete fare nulla.
Alla conclusione di questa lettura troviamo la conferma dell’eterna verità: il segreto della vita e di ogni vita è Gesù. Per restare uniti a lui, senza rischiare la sterilità del tralcio secco e la fine di essere bruciati nel fuoco, il segreto è “rimanere in Lui”. Proprio questa è la cosa impegnativa di una vita e la garanzia di un frutto di cui è impossibile calcolare il valore. Certo torna qui la domanda: ma che cosa comporta “rimanere” in Lui? Questo comporta fare la scelta totale di lui, non ammettere altre presenze che vantino valori alternativi. Il frutto lo dà solo lui: uniti a lui, tutto nella nostra vita è utile, fruttuoso; staccati da lui, è solo illusione quella di chi pensa di raggiungere una “riuscita” in questa vita (non parliamo poi dell’altra!).
Certo “rimanere in me” comporta un atteggiamento totale, che parte dal pensiero con le sue convinzioni, si estende immediatamente ai desideri che ci permettiamo di coltivare, ai progetti che ci vien di formulare tutte le volte che pensiamo a ciò che è bello o brutto, odioso tollerabile o desiderabile. Anche se i progetti molto spesso non superano la soglia del desiderio, sono già in partenza scelte di valore: la santità e la delinquenza spesso hanno le radici a quella profondità.
Allora non ha senso illudermi anche solo di dare un senso al semplice pensiero di cose che sappiamo non corrispondere a quanto ci “fa rimanere” in lui; mentre invece è tutt’altro che illusione orientarmi su cose che nessuno apprezzerà, ma rispondono a quei valori per cui Lui ha dato la vita – per me!!
Vostro Don Giuseppe Ghiberti