Domenica 20-3-2022 – III di Quaresima – Anno C – Settimanale AMCOR
Cari soci e amici dell’Amcor,
ancora l’eco della guerra rimbomba nei nostri cuori, ferisce, ci porta a supplicare Dio per il dono della pace.
In questo contesto, che viviamo con crescente angoscia, Don Giuseppe ci guida all’ascolto della parola di Dio di questa domenica 20 marzo ricordandoci che: “La prima lettura, dal libro dell’Esodo, ci porta una delle pagine più belle e impegnative dell’Antico Testamento: l’esperienza dell’Oreb, del roveto ardente.”
L’esperienza dell’Oreb è l’esperienza dell’incontro con Dio. In questa esperienza Dio si fa conoscere come “totalmente altro” da noi e insieme come il Dio che opera nella nostra storia dirigendola verso un fine, si presenta come il Dio che si conosce attraverso Abramo, Isacco e Giacobbe.
Mosè chiede a Dio “Qual è il tuo nome?” (Es 3,13). Nella tradizione semitica il nome è espressione della natura intima di chi lo porta. Dio non può rivelarsi totalmente all’uomo, quasi sottomettendosi a lui. Dio dirà a Mosè: “Io sono colui che sono!.” (Es 3,14).
Questa definizione deriva dalla traduzione in greco dell’ Antico Testamento, traduzione detta dei “settanta” (risalente al III secolo a.C.) e che risente della cultura greca molto rilevante ad Alessandria d’Egitto in quell’epoca.
Si è scavato nel testo originario in ebraico della definizione di Dio per approfondirne il senso. Questo testo originario, dalla struttura sintattica complessa, si è cercato di tradurlo in vari modi: “fa essere”, “porta all’esistenza”, “egli è”, “io sarò ciò che io sarò”, “io sarò chi sono stato”, “io sono colui che è”, “Io sono l’esistente”. Quanta ricchezza e mistero nel nome di Dio, quanta ricchezza e mistero nel nostro cammino di fede.
San Paolo rilegge alcuni eventi dell’Esodo (la manna, l’acqua dalla roccia, la nube) alla luce della persona di Gesù che ne è il senso compiuto. San Paolo afferma; “Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento …. Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.” (1Cor 10,11-12). Gesù è l’interpretazione e il compimento della storia di Israele che è tramandata nell’ Antico Testamento.
Il racconto di Luca narra di Gesù che, durante il suo cammino verso Gerusalemme, viene a conoscenza di fatti dolorosi che hanno provocato molti morti. Il racconto termina con la parabola del fico che non produce frutti. Don Giuseppe conclude la sua riflessione dicendo: “… bisogna lavorarci su, con quel fico: la sopravvivenza non è gratuita o automatica.” Dobbiamo, infatti, imparare a leggere i segni che la storia ci presenta. La morte ci deve insegnare ad essere vigilanti perché oggi è il tempo della salvezza, il domani è un dono per consentirci un cammino di conversione.
Il salmo, attribuito a Davide, è un canto di benedizione al Signore da parte della nostra anima a cui partecipano anche gli angeli e tutto il creato. L’Eucarestia è la grande benedizione che il Padre riversa sul mondo e su di noi attraverso il figlio suo benedetto. Sentirsi benedetti e benedire il Signore è l’impegno, il difficile impegno che viviamo costantemente ed in particolare in questi giorni di guerra, di distruzione, di morte.
“Benedici il Signore, anima mia, /
quanto è in me benedica il suo santo nome. /
Benedici il Signore, anima mia, /
non dimenticare tutti i suoi benefici. /
Egli perdona tutte le tue colpe, /
guarisce tutte le tue infermità, /
salva dalla fossa la tua vita, /
ti circonda di bontà e di misericordia. /
Il Signore compie cose giuste, /
difende i diritti di tutti gli oppressi. /
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, /
le sue opere ai figli di Israele. /
Misericordioso e pietoso è il Signore, /
lento all’ira e grande nell’amore. /
Perché quanto il cielo è alto sulla terra, /
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono. (Sal 103/102, 1-2; 3-4; 6-7; 8-11)
La nostra anima benedice il Signore, la nostra anima supplica il Signore misericordioso e pietoso in questi giorni di ansia e di dolore.
Don Giuseppe conclude il suo scritto ricordando perché il celebrante bacia l’altare arrivando all’inizio della Messa. Perché l’altare, come Gesù, è pietra e “su questa pietra è più facile, più naturale, porre tutta la nostra povera realtà e chiedergli che lui, la “pietra spirituale”, la assuma nella sua ricchezza di forza e di amore.”
Sapendovi uniti nella preghiera per la pace, vi invio, insieme a Don Giuseppe, Suor Maria Clara, Mariella, Patrizia e tutto il Consiglio, un grande abbraccio.
Contardo Codegone
P.S.
Per i soci Amcor. Vi ricordo che sabato 26 marzo 2022, alle ore 15,30, si terrà, via internet, la nostra Assemblea annuale.
(Durante l’assemblea ci collegheremo con il Prof. Mikhaylo Perun dall’Ucraina e con Padre Mario Cuccarollo dall’Armenia per avere notizie dirette.
III domenica di Quaresima C
20. 3. 22
Letture: Es 3, 1-8. 13-15; 1 Co 10, 1-6.10-12; Lc 13, 1-9
La prima lettura, dal libro dell’Esodo, ci porta una delle pagine più belle e impegnative dell’Antico Testamento: l’esperienza dell’Oreb. Mosè ha avuto esperienze varie, dalle vicende della sua infanzia e della corte del faraone d’Egitto, alla fuga terminata presso la famiglia di Ietro, sacerdote di Madian, che diventa poi suo suocero e di cui egli porta il gregge al pascolo. Nell’esercizio di questa “professione” lo aspetta il Signore, che gli parla da un roveto ardente, che brucia senza consumarsi. In passaggi progressivi Dio gli dice chi egli è: dapprima il “Dio di tuo padre”, poi “io sono colui che sono”, per fermarsi in fine su questi due appellativi, e sarà storia benedetta : “Io-Sono mi ha mandato a voi” e “il Signore, Dio dei vostri padri…”. Sono titoli portatori di autorità, e con quell’autorità Dio gli dà l’incarico (“Io-Sono mi ha mandato a voi”). Di qui avrà inizio l’esodo degli ebrei dall’Egitto e tutta la storia del popolo eletto; e sarà storia benedetta nella misura in cui quel popolo resterà fedele al suo Signore.
La seconda lettura ce la regala San Paolo, scrivendo ai Corinzi, raccomanda ai suoi cristiani, i quali credono di “stare in piedi”, che “guardino di non cadere”. Il cammino di questa lettera, molto pratica, ha già affrontato numerosi problemi e ne riserva ancora alcuni belli, come il richiamo all’eucaristia, nel capitolo successivo, e in finale la grande testimonianza sulla risurrezione di Gesù. Qui, ora, interviene il ricordo dell’esperienza del popolo ebraico nel deserto durante l’esodo verso la “terra promessa”. Paolo ne approfitta per trasferire le sue raccomandazioni alla situazione presente: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” e ponga tutta la sua fiducia in Dio. E’ un ragionamento prezioso nella sua praticità, di modesta concretezza.
Nel racconto evangelico di Luca, Gesù si trova in un punto indeterminato del suo cammino verso Gerusalemme e viene a conoscenza del fatto dolorosissimo di un eccidio provocato in Galilea da quel personaggio poco prevedibile che era Pilato, il prefetto romano della terra d’Israele. Di suo, inoltre, Gesù riprende la notizia di diciotto morti a seguito della caduta della torre di Siloe e usa la notizia come richiamo alla conversione. Aggiunge poi la parabola del fico infruttuoso, che il padrone vorrebbe fare tagliare, ma per intercessione del vignaiuolo soprassiede alla decisione, concedendo ancora un anno di prova, mentre la pianta viene curata dallo stesso vignaiolo. Certo, se anche questa volta i frutti non giungono, “lo taglierai”. Nella dinamica della parabola, la finale è logica, ma lascia ugualmente un gusto amaro, perché il debito è dilazionato, non estinto. Dunque bisogna lavorarci su, con quel fico: la sopravvivenza non è gratuita o automatica. Ed è questo l’insegnamento che emerge dalle vicende luttuose e dal racconto parabolico (che riecheggia proprio la parabola di Matteo 21, 19-22).
La roccia era Cristo
Carissimi, permettetemi una confidenza: all’inizio della Messa, arrivando, il sacerdote celebrante è invitato a baciare l’altare. Non di rado questa particolare cerimonia è trascurata e, se si compie, è senza attenzione. Se sapeste invece che gioia può dare quel momento: ripetendo la frase di San Paolo, si pensa (magari in latino, come può capitare spontaneamente a un celebrante non … di primo pelo) che “petra autem erat Christus” e allora si inizia meglio la Messa, in unione più intima, con la consapevolezza dell’“altare uguale Gesù”. Su questa pietra è più facile, più naturale, porre tutta la nostra povera realtà e chiedergli che lui, la “pietra spirituale”, la assuma nella sua ricchezza di forza e di amore.
Vostro don Giuseppe Ghiberti