Domenica 11-9-2022 – XXIV Domenica T.O. – Anno C – Settimanale AMCOR
Cari soci e amici dell’Amcor,
le letture che la liturgia di questa domenica 11-9-22 ci offre sono collegate dal forte filo della natura di Dio e della sua Fedeltà e Misericordia.
La prima lettura è tratta dal libro dell’Esodo e riporta il dialogo tra Dio e Mose’ dopo la vicenda del vitello d’oro. La trama sembra semplice a prima vista, ma Don Giuseppe ci dice che si tratta di “un episodio assai delicato”. Mi hanno colpito questi punti:
– all’inizio del brano Dio si rivolge a Mose’ dicendogli con tono perentorio: “Va’, scendi, perché il TUO popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito.” (es 32,7). Ho messo in evidenza quel TUO popolo, perché non è più il popolo dì Dio!
– Poi Dio prosegue minaccioso: “ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione” (Es 32,10). Vi è l’ira apparentemente incontenibile dì Dio, ma anche una offerta, quasi tentatrice, a Mose’. Dio propone a Mose’ dì diventare il capo dì una grande nazione costituita dopo il popolo che ha tradito.
– Mose’ si mette in mezzo tra Dio e il popolo: “Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il TUO popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? (Es 32,11). Mose’ quasi corregge Dio: questo popolo, seppur peccatore, è e rimane il popolo dì Dio.
– Mose’ va ancora più avanti e ricorda a Dio il suo giuramento fatto ad Abramo, Isacco e Israele (“hai giurato per te stesso”) di garantire a loro una “posterita’ numerosa come le stelle del cielo”. Sembra quasi che Mose’ voglia difendere la santità di Dio davanti al popolo ricordandogli che non può venir meno al suo giuramento. Mose’ sa che la natura di Dio è di essere se stesso cioè fedele alla sua parola e misericordioso.
– Mose’ aggiunge ancora una sottolineatura che non è ripresa nel brano di oggi. Egli, infatti, ricorda a Dio che gli egiziani potrebbero commentare malevolmente il suo agire: “Con malizia li ha fatti uscire (dall’Egitto) per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra.” (Es 32,12). E’ quasi una provocazione, una preghiera ardita di un uomo giusto che guarda al suo Dio sicuro dì poterlo invocare con forza, con passione.
– Allora: “Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.” (Es 32, 14)
Mose’ ci mostra la forza della sua preghiera che non è incentrata sui peccati del popolo, che peraltro non cerca di scusare, ma è rivolta a Dio stesso, ha Dio al centro. La preghiera nella sua essenza è abbandono a Dio, al suo mistero di amore. La preghiera deve avere al suo centro Dio.
La seconda lettura, tratta dalla prima Lettera a Timoteo, ci dice Don Giuseppe, presenta una descrizione toccante di Cristo: “venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io (Paolo) … “ Il testo si conclude proclamando “onore e gloria” al “re dei secoli, incorruttibile, invisibile ed unico Dio”. Ricorda ancora Don Giuseppe che: “ il tono è un po’ diverso da quello degli scritti paolini precedenti, ma è toccante l’indirizzo di Gloria a Gesù Salvatore.”
Anche in questo testo paolino vi è forte il tema teologico della natura misericordiosa di Dio.
Il brano evangelico tratto da San Luca, ci dice Don Giuseppe: “è noto e quanto mai impressionante.” Il brano include le parabole della pecora che si è persa, della moneta smarrita e del Padre misericordioso. Siamo nella centralità del tema della natura misericordiosa di Dio. Natura che porta Dio a cercare chi si è smarrito, chi ha peccato, chi è nella disperazione e non riesce a rialzarsi da solo.
Il salmo è una descrizione dell’agire giusto di Dio, della sua misericordia, ed è invocazione che si volge alla natura di Dio: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore….”.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; /
nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. /
Lavami tutto dalla mia colpa, /
dal mio peccato rendimi puro. /
Crea in me, o Dio, un cuore puro, /
rinnova in me uno spirito saldo. /
Non scacciarmi dalla tua presenza /
e non privarmi del tuo santo spirito. /
Signore, apri le mie labbra /
e la mia bocca proclami la tua lode. /
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; /
un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi. (Sal 51/50, 3-4; 12-13; 17.19)
Come si torna pieni di gioia dopo l’incontro con la Parola di Dio. Abbiamo alzato lo sguardo verso dì lui, dimenticando il nostro camminare faticoso e incerto, e abbiamo sentito il suo sguardo su di noi, abbiamo cercato Dio nel suo mistero di amore e misericordia. E’ la preghiera che riempie i mistici di Dio e porta i mistici nell’intimità di Dio.
Con Don Giuseppe, Suor Maria Clara, Mariella, Patrizia e tutto il consiglio, uniti nella preghiera, vi invio un grande abbraccio.
Contardo Codegone
XXIV Dom. t. Ord. C –11. 9. 22
Letture – Es 32,7-11. 13-14; 1 Tim 1.12-17; Lc 15, 1-32
La prima lettura di oggi, riportata dal libro dell’Esodo, narra un episodio assai delicato accaduto agli ebrei durante la traversata del deserto, nello spostamento dall’Egitto alla Terra d’Israele. Mosè ha lasciato il popolo alle falde del Sinai, mentre lui si intratteneva con Dio, che gli consegnava le famose “tavole della legge”. In quel lungo tratto di tempo il popolo ha chiesto ad Aronne, fratello di Mosè, che fondesse una statua di animale per poterla adorare. Il Signore dal Sinai se ne lamenta con Mosè e decreta il castigo dell’annientamento del popolo. Mosè intercede per salvare il popolo, ricordando tutte le promesse fatte proprio dal Signore, e per questo intervento “il Signore si pentì del male che aveva minacciato”. Il racconto si arresta qui, anche se il fatto avrà il suo seguito proprio per iniziativa di Mosè, che annienterà l’idolo costruito da Aronne. Tra gli insegnamenti di questo evento c’è il comportamento del Signore, tanto longanime, e l’efficacia dell’intervento di mediazione da parte dell’amico di Dio, che rinuncia al castigo già pronto.
Nella prima Lettera a Timoteo (seconda lettura di questa domenica) parla un Paolo, che dichiara di essere stato niente di buono soprattutto con i cristiani, ma ora è stato vinto dalla “grazia del Signore nostro”. Di questo Cristo egli dà una descrizione toccante: “venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io… ha voluto in me dimostrare tutta quanta la sua magnanimità e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui”. E conclude proclamando “onore e gloria” al “re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio”. Il tono è un po’ diverso da quello di scritti paolini precedenti, ma è toccante l’indirizzo di gloria a Gesù salvatore.
Il brano evangelico, da san Luca, è noto e quanto mai impressionante. Durante la “salita a Gerusalemme” avviene un fatto che ci tocca veramente il cuore. Tanta gente si rivolge a Gesù senza avere – diremmo noi – le carte pulite: “tutti i pubblicani e i peccatori”. Gesù non mostra affatto disaccordo, disappunto o anche solo disagio; ma i pretesi “buoni” lì presenti non possono non protestare: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ma Gesù non mostra il minimo disagio e parte diritto con le sue motivazioni. Non si tratta di ragioni astratte, bensì solo di tre casi che possono accadere ovunque e che i suoi interlocutori hanno tutti i giorni sotto gli occhi.
Incomincia con una pecora che, da un gregge di cento pecore, si allontana. Forse non ha colpa o forse l’ha, per essere troppo… svagata. Il padrone non dice nulla, soltanto lascia le altre pecore (evidentemente al sicuro) per correre dietro quella svagata. La trova, la tratta con tutta la dolcezza di cui è capace, condivide con gli amici la gioia del ritrovamento. E Gesù esplicita il senso della parabola: è la fotografia di quel che accade in cielo, dove c’è più gioia per la conversione di un solo peccatore che per la perseveranza di novantanove. Evidentemente tutto è da prendere secondo il linguaggio parabolico, perché non vuole dire alle novantanove: fate anche voi come quella. Quel che conta è la capacità del pastore di non far pesare in nessun modo la possibile sventatezza alla pecora smarrita (“se la carica sulle spalle”). Addirittura il ricupero faticoso viene dimenticato, per dar luogo a una gioia che ricorda solo il bene e dimentica tutto il male.
La parabola della moneta smarrita si muove sulla stessa falsariga: il ritrovamento della moneta smarrita dà, in cielo, una gioia assolutamente straordinaria.
La parte più lunga dell’insegnamento è dedicata alla parabola del figliuol prodigo, che sviluppa e ingentilisce tutto ciò che abbiamo sentito finora. La maggior parte di noi forse dice che quel padre non era molto furbo, cedendo a una ridicola pretesa del figlio. E quel figlio all’inizio sembra proprio essere stato un fannullone prepotente e presuntuoso. Ma poi ha un ricupero, forse non perfetto, ma sincero, nella sua remissività. Contemporaneamente il padre dalla gioia non sta più né in cielo né in terra: tratta il figlio come nel giorno delle nozze – e quasi non capisci se ci sia solo lui in casa. Invece no, non c’è solo lui, e quando arriva l’altro, che si crede buono, apriti cielo! E quel povero padre cerca di sistemare i cocci, ma si prende tutti i rimbrotti di questo mondo.
A osservare da fuori, vien proprio da dire: guarda se vale la pena voler tanto bene ai figli!! L’unico che non ragiona sicuramente così è Dio – ed è quello che l’affetto al figlio bisognoso l’ha mostrato nella maniera più generosa e costruttiva.
Figlio bisognoso sono anch’io, e per me il Padre ha dato proprio tutto, ha dato il Figlio del suo amore.
Vostro Don Giuseppe Ghiberti