Domenica 21-3-21 V Domenica Quaresima B – “Settimanale Amcor”
Cari soci e amici dell’Amcor,
siamo nella quinta domenica di Quaresima e nella prima lettura Dio dice, attraverso il profeta Geremia, che “verranno giorni nei quali con la casa di Israele e la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova…… la scriverò sul loro cuore” (Is 31,31). Si tratta di quello che possiamo considerare il vertice dell’ AT di cui comprendiamo la portata con l’avvento di Gesù. La domenica successiva, 28 marzo, sarà la domenica delle Palme che apre alla Settimana Santa, al sacrificio di Gesù ubbidente, alla sua sofferenza redentrice.
Don Giuseppe ci guida con sapienza nella comprensione del mistero della sofferenza che non solo redime, ma rende capaci di conoscenza. Don Giuseppe ci guida ricordando come, sia nella letteratura profana greca come in quella biblica, la sofferenza è percepita come strada per una vera conoscenza. La spiritualità sindonica, che tanto sostiene il nostro cammino di fede, è una forte testimonianza della sofferenza del Signore che si fa uomo per farsi carico della sua umanità. E’ bello ricordare che Sabato Santo 3 aprile 2021 ci sarà una contemplazione online della Sindone e a Don Giuseppe è stato richiesto un intervento proprio sul tema della sofferenza espressa dal volto dell’uomo della Sindone che è espressione della sofferenza di ogni essere umano, sofferenza che, nella fede, sentiamo aperta alla luce della speranza.
Il Salmo 51/50, salmo penitenziale per eccellenza, nell’invitarci a supplicare la misericordia di Dio ce ne fa cogliere tutto l’amore che lo porterà a sacrificare il Figlio prediletto per la nostra salvezza, salvezza che ci verrà dalla suprema obbedienza e dalla sofferenza redentrice.
“Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; / nella tua grande misericordia / cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro” (Sal 51/5, 3-4)
Al versetto 17 questo Salmo dice: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.” In questo modo inizia ogni giorno sia la preghiera ebraica sia la preghiera cristiana della liturgia delle ore.
In questo periodo di Quaresima sia questa la nostra costante preghiera nelle difficoltà, pressanti, della vita quotidiana.
In questo spirito e in occasione della festività di San Giuseppe di venerdì, Vi proponiamo di unirci in preghiera Sabato 20 marzo partecipando alla Santa Messa delle 8,30 celebrata da Lourdes e trasmessa su TV 2000 (canale 28). Ci sentiremo tutti insieme ai piedi della Mamma del Signore e Mamma nostra per ringraziarLa per Don Giuseppe e pregarla in questo momento di grave preoccupazione.
Vi saluto con affetto insieme a Don Giuseppe, Suor Maria Clara e tutto il Consiglio.
Contardo Codegone
Settimanale AMCOR
21. 3. 2021 –V Dom. Quar. B
Pur essendo Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che patì
Letture bibliche: Ger 31, 31-34; Eb 5, 7-9; Gv 12, 20-33.
Celebrando l’Eucaristia, alla consacrazione il sacerdote pronuncia le parole sulla “nuova ed eterna alleanza”. Sono parole di Gesù, ma lui stesso le riprendeva dal profeta Geremia, come sentiamo oggi dalla prima lettura. E in questa alleanza tutto sarà iniziativa divina: Dio approfondirà il suo rapporto con il suo popolo, al punto che “tutti mi conosceranno”. Ci sarà la reciprocità totale di doni e di impegni: “Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”. Una volta le leggi si scrivevano su pietra, ora Dio dice che “la scriverò sul loro cuore”, “tutti mi conosceranno”. E’ uno dei passaggi più belli e impegnativi dell’Antico Testamento, che ci dà un po’ la misura della delicatezza dell’amore di Dio. Non pensiamo che questo valga solo per i rapporti personali, “privati”, con il Signore, perché tutto ciò che è comunitario ha le radici nel privato, e ciò che parte dal privato ha un riflesso e una conseguenza nella/e comunità.
Nella lettera paolina agli Ebrei troviamo un piccolo densissimo brano. Particolarmente impressionante è l’affermazione riguardante Gesù: “pur essendo Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che patì”. Da questa “ubbidienza” gli è venuta l’efficacia totale nell’intervento “per tutti coloro che gli obbediscono”. E’ il mistero dell’incarnazione e della salvezza universale che ci viene incontro con frasi semplicissime, ma che ci muoiono in bocca non appena iniziamo a pronunciarle.
Il brano giovanneo del vangelo narra uno degli episodi finali della “vita pubblica di Gesù”, prima dell’ultima cena e poi della passione. L’occasione è insolita e rappresenta un allargamento del pubblico che attornia Gesù: alcuni “Greci”, che sono ebrei, ma abitano fuori della terra d’Israele (forse un po’ gli “italiani d’America”). Sono qualcosa tra il timido e il deciso: non hanno nessun rapporto che favorisca l’avvicinamento a Gesù e si affidano al nome di due apostoli, Filippo e Andrea (vengono anch’essi dalla Galilea, ma di educazione probabilmente mista, un po’ greca, almeno a giudicare dal loro nome), con una richiesta che continua a girare in testa anche a me, anche ora: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Forse tra di voi molti (come me) hanno detto: “Oh che bello, voglio venire anch’io”. E invece è ancora il momento di aspettare, perché Gesù dice che occorre che “il chicco di grano, caduto in terra”, muoia, per portare molto frutto. Egli va incontro a questi “greci” e parla di sé stesso, della sua passione che è alle porte, e paragona sé stesso a un chicco di grano: porta frutto solo se cade in terra e muore. Non è certo un discorso facile da accettare, nemmeno per Gesù stesso che lo fa. Eppure egli rinuncia a chiedere al Padre che lo “salvi da quest’ora” e si mette totalmente a sua disposizione, per la gloria del suo nome. E il Padre risponde con una voce dal cielo, che conferma che quanto sta accadendo è per la gloria. Ed è Gesù, ora, che reagisce a questa parola con una affermazione misteriosa riguardante la passione che è alle porte: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E’ nella croce il segreto della salvezza per tutti!
Pur essendo Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che patì – Quanti pensieri ci vengono suggeriti da questa affermazione. Non passiamo oltre, mettiamoci di fronte a questo quadro, naturale e pure assurdo, che ci viene di chiamare crudele: il Figlio si mette alla pari con le condizioni: l’ubbidienza spiega l’accettazione totale della più radicale sofferenza; la sofferenza a sua volta è maestra di ubbidienza. La ragione ultima della coesistenza dei due aspetti è da trovare ancora nella ineffabile unione delle componenti del mistero del Figlio-sommo sacerdote.
Il tema dell’insegnamento che la sofferenza porta nell’esperienza umana ha una mesta diffusa presenza sia nella letteratura profana greca sia nella letteratura biblica. Si parte da una constatazione modesta del «patire [che] dà senno allo stolto» (Esiodo) per passare al proverbio «Se non soffri non impari» (riportato da Platone), oppure (secondo una finale di favola di Esopo) «le disgrazie diventano insegnamenti per gli uomini». L’Antico Testamento arricchisce questa tematica con i toni della sua religiosità: «Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione. Perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto» (Prov 3,11.12) e ancora «chi non ha avuto delle prove poco conosce» (Sir 34,10). La spiritualità anticotestamentaria giunge fino a fare di questa consapevolezza un passaggio nel cammino verso Dio. Il ricordo va spontaneo all’esperienza di Geremia e a quella di alcuni salmisti: «Prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua parola… Bene per me se sono stato umiliato, perché impari a obbedirti» (Sal 119,67.71). Anche Gesù, il Figlio, è entrato in questa dinamica: egli ha condiviso talmente la condizione umana da accogliere anche questo servizio che gli veniva dalla sofferenza.
Pur assoggettato a questa legge, il Figlio si differenzia per la chiarezza della sua scelta, compiuta con una determinazione che la Lettera enfatizza per evidenziarne l’esemplarità eccezionale: «Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia e si è assiso alla destra del trono di Dio» (12,2). Ciò non impedisce all’autore della nostra Lettera di affermare che Gesù ha accettato l’educazione che la sofferenza gli dava in funzione dell’ubbidienza: a tanto è giunta l’assunzione del criterio di solidarietà verso gli uomini.
L’insegnamento termina all’obbedienza, genera ubbidienza: nel momento in cui l’esperienza del patire si fa tanto insopportabile da suggerire il rifiuto, in quel momento dalla tribolazione giunge il suggerimento all’accettazione della volontà stessa che ha inviato il soffrire. In Gesù s’è realizzato un principio duro e pur provvidenziale, che è noto come legge per tutti. Il suo esempio è quindi da seguire senza riserve. Anzi, suggerisce il ragionamento, la cosa vale «a fortiori», perché Gesù ha accettato al massimo grado la volontà di chi gli inviava la sofferenza e perché lui era Figlio, e senza peccato. E in questo modo egli è in massimo grado «capace di sentire compassione», come si leggeva poco sopra, al v. 2.
Nei vv. 7-10 del cap. 5, l’autore insiste sulla partecipazione di Gesù al destino umano di sofferenza, che l’ha portato alla morte, anche se ne fu poi liberato. Tutto l’atteggiamento di Gesù fu caratterizzato dall’ubbidienza al Padre e così egli poté diventare causa di salvezza per quanti ubbidiscono a lui. Ma l’ubbidienza al Padre fu appresa attraverso la sofferenza: è l’insegnamento del nostro versetto 8.
Gesù è stato sempre ubbidiente al Padre. Ci teneva anche a dirlo, perché lo vedeva come l’unica risposta giusta alla missione che il Padre gli aveva affidato. Nel Nuovo Testamento questa verità è affermata da tutti gli autori, anche se non sempre esattamente con le stesse espressioni. In alternativa con il linguaggio di ubbidienza risuona quello equivalente di fare la volontà di Dio o del Padre. Nei vangeli sinottici è riportata l’esclamazione pronunciata nell’orto degli ulivi, in una delle ore più difficili della vita di Gesù: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42)[1]. In Giovanni risuona il principio programmatico: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (4,34). È però Paolo che ci dà il parallelo più illuminante, quando tenta una descrizione del mistero di Gesù nell’inno della Lettera ai Filippesi: «apparso in forma umana, umiliò sé stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (2,7-8). C’è dunque un convincimento che ha le radici nell’intenzione stessa dichiarata da Gesù e che la predicazione primitiva ha conservato in memoria ed evidenziato: Gesù ha assunto come principio primo del suo agire l’adesione totale e amorosa alla volontà del Padre.
C’è un altro passo che ha affermazioni simili, limitatamente a Gesù: «Era giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li guida alla salvezza» (Eb 2,10)[2]. Manca solo l’ubbidienza, perché ciò che rende perfetto è la sofferenza; perciò manca anche la funzione esemplare, ma è accentuata l’efficacia di salvezza.
Vostro Don Giuseppe Ghiberti