Domenica 28-3-21 Le Palme – B “Settimanale Amcor”
Cari soci e amici dell’Amcor,
di fronte alle letture di oggi don Giuseppe ci ricorda che : “Mai durante l’anno siamo accompagnati da tanta abbondanza di parola di Dio.”
Ne colgo un frammento. La spiritualità sindonica, che ci porta a inginocchiarci davanti all’immagine di Gesù deposto dalla croce, con i segni della morte impressi sul viso e sul corpo, deve aiutarci a rivivere, a far nostra, l’esperienza di fede del centurione romano:
“Il centurione che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era figlio di Dio!” (Mc 15,39).
Vivendo l’esperienza della morte di Dio, narrata nella sua passione, possiamo proseguire il nostro cammino di fede e giungere, faticosamente, ai piedi della croce. Solo dopo questo cammino non incontreremo più un Dio morto, ma la resurrezione e la vita.
Davanti alla croce, come il centurione, potremo così riconoscere Gesù come figlio di Dio.
Il Salmo, guidandoci in questo impervio cammino, ci porta a ripetere:
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22,1).
E’ il grido di Gesù ed è la domanda di fondo per arrivare, non superficialmente, ai piedi della croce.
E solo allora, dopo questo incontro, dopo questo cammino di conversione, potremo anche noi cantare con il salmista:
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, / ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli, / gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d’Israele.” (Sal 22, 23-24)
In questo modo, con questo percorso, poniamo Dio non ai margini della nostra vita, solamente quando ne sentiamo il bisogno, ma al centro della nostra esperienza quotidiana, della nostra fede, del nostro essere Chiesa.
Con Don Giuseppe, Suor Maria Clara e tutto il Consiglio vi auguro una intensa Settimana Santa, la Settimana delle Settimane.
Contardo Codegone
Settimanale AMCOR
28. 3. 2021 –Le Palme – B
Letture bibliche: [Mc 11, 1-10opp. Gv 12,12-16] – Is 50, 4-7; Fil 2, 6-11; Mc 14, 1 – 15,47.
Siamo vicinissimi alla Pasqua, all’inizio della settimana che ha visto la più grande sofferenza dell’Innocente, la più grande dimostrazione di amore fraterno, il più grande trionfo dell’onnipotenza misericordiosa del Padre, a gloria del Figlio, nella forza dello Spirito. Mai durante l’anno siamo accompagnati da tanta abbondanza di parola di Dio: sentiremo all’inizio il racconto dell’entrata festosa di Gesù in Gerusalemme e poi il racconto intero della passione di Gesù secondo San Marco e in fine, al venerdì santo, la passione secondo San Giovanni.
Chiederemo al Signore il dono di orientarci in un simile rigoglio della sua santa Parola. Incominciamo ringraziando il Signore che ci parla. E’ una sovrabbondanza, ma non una provocazione. Chiediamo al Signore di usare questa ricchezza al meglio.
[All’inizio della liturgia sentiamo il vangelo dell’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme o secondo il racconto di Marco (11,1-10) o secondo quello di Giovanni (12,12-16), a scelta.]
Dobbiamo resistere alla provocazione di una proposta che ci mostra l’entrata di Gesù in Gerusalemme sotto un aspetto esageratamente trionfale: è invece certamente un momento di gioia serena, espressione del gradimento provocato dalla presenza di Gesù e ricco di nascosti significati che sarebbero stati compresi solo dopo la sua risurrezione. L’entusiasmo popolare che lo accompagnò fin dentro la città santa aveva solo un significato religioso (“Benedetto colui che viene nel nome del Signore”) e non ebbe l’effetto di insospettire i romani. Era però un avvertimento circa il mistero nascosto di Gesù. E’ anche, senza che nessuno dei presenti tranne Gesù se ne renda conto, una delle dimensioni della passione: non sarà mai il momento della gioia popolare a determinare l’effetto delle iniziative del Maestro.
Gesù non se ne illude. La lettura di questo episodio evangelico sembra voler suscitare un contrasto poco spiegabile con quanto segue, quando trionfa la sofferenza, ma il motivo della inaffidabilità del consenso popolare è tanto presente nella storia dei rapporti dell’uomo col suo Dio. Dio si fida dell’uomo, di me, ma io merito quella fiducia?
Piccola osservazione iniziale: nella passione raccontata da Giovanni l’ultima cena viene prima dei discorsi d’addio di Gesù (al cap. 13) e la passione incomincia propriamente solo con l’agonia di Gesù nel Getsemani (al cap. 18). Di lì iniziano in tutti e quattro i vangeli alcuni elementi che si ripetono con grande costanza, a cominciare dalla preghiera nell’Orto degli ulivi. Il vangelo di Marco ci presenta probabilmente la prima versione completa della passione di Gesù, con gli episodi che ci sono più conosciuti: cena pasquale (con l’istituzione dell’Eucaristia: noi pensiamo al Cenacolo), preghiera di Gesù nel Getsemani, arresto di Gesù, portato davanti al sinedrio, rinnegamento di Pietro (la vicenda si svolge in ambiente ebraico con protagonisti solo ebrei).
A questo punto la scena si sposta e passa in ambiente romano, dove le autorità ebraiche hanno trascinato e seguito Gesù (se si voleva eliminare Gesù, bisognava ottenere la condanna capitale dai romani). Pilato, detentore del potere, non vorrebbe far morire Gesù, anche se questi dà una risposta “imprudente” alla domanda se lui sia il re dei Giudei (“tu lo dici”): gioca allora la scelta tra Gesù e Barabba ma la folla sceglie che sia messo in libertà Barabba. Dunque Gesù deve andare sulla croce. Pilato sembra partire da una constatazione realistica (Gesù non ha commesso nessuna azione delittuosa) e niente gli fa cambiare idea; la sua decisione però non ne tiene assolutamente conto. Sembra un po’ il modello dell’uomo anche di oggi: non c’è considerazione di diritto e giustizia che riesca a determinare una sentenza nel senso dei fatti. Vincono gli altri interessi, a danno dell’uomo
Gesù è atteso da una serie di torture senza fine: i soldati lo sbeffeggiano, lo torturano, lo dileggiano. Viene incoronato di spine, tra burle e sofferenze varie, fatto oggetto di finta stima (il mantello dell’autorità e il bastone del comando). Una canea di aguzzini trova gusto nel praticare contemporaneamente sofferenza fisica e dileggio raffinato. Basti un particolare: “E gli percuotevano il capo con una canna e gli sputavano addosso e piegando le ginocchia, si prostravano dinanzi a lui”. Ma è tutto il racconto una ininterrotta successione di tormenti, che hanno solo il limite del tempo e dello spazio per sbizzarrirsi.
Ormai tutto è deciso (Pilato dov’è?) e si forma il tragico corteo del candidato alla crocifissione. Il tragitto, per il corpo maciullato di Gesù, accentua al parossismo la sofferenza e rischia di far venir meno il condannato lungo il cammino. E’ costretto a sottomettersi al peso della croce (che è rilevante, anche se il grande palo attende già sul calvario e ora viene trasportato solo il patibilum, asse o tronco orizzontale), un passante occasionale, Simone di Cirene, che sarà noto ai cristiani di Marco per i due figli, Alessandro e Rufo, probabilmente in rapporto con la successiva cristianità di Roma.
Poi inizia la fase risolutiva. Chiediamo a Gesù la forza di seguirla tutta: con mente fantasia cuore consapevolezza… Il racconto evangelico non narra tutto, ma qualcosa possiamo ricostruire. Si inizia con il denudamento (di cui anche la Sindone è testimone), con il posizionamento dei chiodi e poi l’innalzamento e la fissazione del braccio trasversale su quello verticale. Le imitazioni della croce che a milioni sono presenti nel mondo sono lontanamente indicative e diventano un aiuto per tenere fissa l’attenzione sul grande mistero di cui sono lontane testimoni. Ma quanto di più dobbiamo comprendere attraverso la descrizione dell’evangelista, che registra la spartizione degli indumenti e la scritta affissa sulla croce: “Il re dei giudei”. Gli altri evangelisti sono leggermente più espansivi, ma la sostanza non cambia: Gesù è proclamato nella forma più ufficiale reo di morte perché re. Certo è sottinteso, da parte dei torturatori, che Lui è tutto il contrario di un re, ma dal luogo e nella modalità più ufficiale è proclamata la causa vera della morte. Più che la vicenda di Gesù è osservato il complesso delle circostanze: la spartizione tra gli aguzzini degli abiti del crocifisso, la presenza dei due briganti crocifissi con lui, il dileggio dei passanti. Risuona l’accusa che Gesù volesse distruggere il tempio (una parola che ebbe un lungo destino), che volesse essere re d’Israele. Il minimo comune a tutti
Alle tre pomeridiane sta terminando la terribile agonia e l’evangelista ci trasmette l’ultima parola di Gesù: un grido espressione della sofferenza massima, riprendendo, nella lingua ebraica originale, la parola del salmo, apparentemente disperata: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Segue l’espressione di una terribile arsura della sete, un grande grido (San Luca però raccoglie un’altra espressione: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”).
Al grande grido segue la morte, accompagnata dalla rottura del velo del tempio. L’evento più impressionante è offerto dalla reazione del centurione, che sembra essere stato il responsabile del drappello esecutore della condanna e che ora esce in un’esclamazione che ha tutta la forza di una confessione di fede: “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”. E’ la fine apparente della vicenda di Gesù in terra. Ma è anche la fine di un lungo arco inclusivo che Marco ha gettato all’inizio (Mc 1,1) di tutto il suo vangelo: “Principio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio”. Ora, crocifisso, è confermato da Dio con una rivelazione misteriosa, nel momento più sofferto e misterioso, a un pagano. Noi crediamo e amiamo quel RE che ci ama a così caro prezzo.
Vostro Don Giuseppe Ghiberti