Domenica 20-2-2022 – VII tempo ord. – Anno C – Settimanale AMCOR
Cari soci e amici dell’Amcor,
i libri di Samuele, insieme a quelli di Giosuè, dei Giudici e dei Re, sono chiamati dei profeti ‘anteriori’ distinguendoli dai profeti ‘posteriori’ (Isaia, Geremia, Ezechiele e gli altri minori). Questi libri definiti come ‘storici’ trattano dei rapporti di Israele con Dio. I libri di Samuele ci mostrano tutta la difficoltà della realizzazione di un regno di Dio sulla terra. Non Saul, non Davide né poi i successori raggiungono questo ideale. Tutta la nostra storia vive di questa tensione tra una visione ideale e la drammaticità dell’esperienza quotidiana segnata da contraddizioni e dolore.
San Paolo, ci dice Don Giuseppe: “si è posto il problema di come risorgiamo noi.” Paolo, infatti, afferma: ‘… io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma saremo trasformati…’ ” (1Cor 15,51). La pienezza della vita, della storia, la incontreremo dopo la morte fisica, quando ‘saremo trasformati’ in un mistero senza tempo.
In questo brano San Paolo conferma, nella resurrezione di Cristo, il fondamento della nostra fede ed raggiunge i limiti del linguaggio umano.
Corpo animale e corpo spirituale, uomo terreno e uomo celeste, uomo tratto dalla terra e uomo che viene dal cielo.
L’estremo limite del linguaggio per esprimere una realtà che va al di là del linguaggio.
Siamo di fronte ad una sfida radicale che ci interroga. Il linguaggio può esprimere tutto l’esistente, dar forma all’esistente?
Ciò che non è esprimibile con il linguaggio in che dimensione si trova, forse al di là dell’esistere?
San Paolo è consapevole della sfida che la fede, che il mistero, rappresenta per la mente e il cuore degli uomini.
Questa sfida del mistero che San Paolo ci annuncia accompagna il nostro cammino di fede, ci porta a invocare costantemente Gesù perché aumenti la nostra fede. Dobbiamo anche riflettere e pregare perché il Signore aiuti noi e la Chiesa nel cammino di ricerca del linguaggio giusto per annunciare oggi la buona novella.
E’ la sfida che ci propone anche il brano del Vangelo di oggi. San Luca, infatti, proseguendo il discorso delle ‘beatitudini’, tratta il tema dell’amore che Gesù ci chiede di avere anche verso i nostri nemici. Don Giuseppe, concludendo, ci dice: “Dunque è attraverso Gesù che il dono/perdono diventa grande strumento di redenzione”. L’ideale di giustizia nella nostra storia personale e in quella dell’umanità, passa attraverso un cammino aspro e difficile segnato anche dall’amore per i nostri nemici, segnato da una sfida radicale a ciò che ci sembra più naturale.
Il Salmo, attribuito a Davide, mi sembra proprio accoglierci e guidarci, con tutti i nostri problemi, in un inno pieno di luce che ha il ritmo del cantico sapienziale. Ci troviamo di fronte a un succedersi di dichiarazioni sulla bontà e misericordia del Signore e a un costante invito alla nostra anima, a tutto il nostro essere, a benedire il Signore. Il Signore, infatti, è buono, agisce con giustizia, è pietoso e lento all’ira. E’ dunque nell’abbandono a Dio che trova sbocco la nostra tensione verso l’ideale non diversamente raggiungibile. E’ nel benedire Dio che trova realizzazione la nostra speranza di resurrezione.
“Benedici il Signore, anima mia, /
quanto è in me benedica il suo santo nome. /
Benedici il Signore, anima mia, /
non dimenticare tutti i suoi benefici. /
Egli perdona tutte le tue colpe, /
guarisce tutte le tue infermità, /
salva dalla fossa la tua vita, /
ti circonda di bontà e misericordia, /
sazia di beni la tua vecchiaia, /
si rinnova come aquila la tua giovinezza. /
Misericordioso e pietoso è il Signore, /
lento all’ira e grande nell’amore. /
Non ci tratta secondo i nostri peccati /
e non ci ripaga secondo le nostre colpe. /
Perché quanto il cielo è alto sulla terra, /
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono. /
Quanto dista l’oriente dall’occidente, /
Così egli allontana da noi le nostre colpe. /
Come è tenero un padre verso i figli, /
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono, /
perché egli sa bene di che siamo plasmati, /
ricorda che noi siamo polvere. / (Sal 103/102 1-5; 8; 10-14)
Il Salmo, che ho integrato con qualche versetto non recepito nelle letture, prosegue ricordando che come l’erba sono i nostri giorni, come i fiori del campo la cui vita non c’è più se un vento li investe, ma l’amore del Signore è da sempre. E’ a questa dimensione al di là tempo che desideriamo abbandonarci partecipando alla benedizione del Signore da parte di tutte le sue opere, da parte dell’intero universo.
Insieme a Don Giuseppe, Suor Maria Clara, Mariella, Patrizia e tutto il Consiglio Vi invio un grande abbraccio.
Contardo Codegone
VII domenica tempo ord. C
20-2-22
Letture: 1 Sam 26, 2.7-9.12-13.22-23; 1 Co 15, 45-49; Lc 6, 27-38
Il libro primo di Samuele, nell’Antico Testamento, ci introduce nella storia documentaria del popolo dell’Alleanza. La figura più ricordata e amata, fra i re del popolo ebraico, è stato indubbiamente Davide, che precedette di un millennio la venuta di Gesù. Pur con i limiti della sua natura irruente e passionale, egli fu fedele al Signore ed ebbe il merito di riconoscere i suoi errori. La sua discendenza attraverso vicende varie giunse fino a Giuseppe di Nazaret, che trasmise a Gesù la condizione giuridica di “figlio di Davide” (noi lo chiamiamo il “padre putativo” di Gesù). Il fortunato scontro dell’antico Davide contro il capo dei filistei, il gigante Golia (che venne da lui abbattuto), lo introdusse alla corte reale ebraica, quand’era re Saul. I rapporti tra Saul e il giovane Davide furono turbati dalla gelosia del re e Davide dovette darsi alla macchia con i suoi sostenitori. Un momento della fuga dei combattenti di Davide vide il fortunoso incontro tra Davide e il suo persecutore Saul, narrato nel nostro brano. Nonostante l’occasione propizia Davide non volle approfittare della possibilità di uccidere Saul, che era pur sempre stato il confidente di Dio. Questo episodio fu sempre riconosciuto a Davide come manifestazione di una generosità coraggiosa. L’episodio è molto bello, ma non deve essere interpretato come una garanzia contro le sofferenze ingiuste. L’esempio della sofferenza di Gesù, il sofferente più giusto e innocente, ci invita ad aprirci a un abbandono di totale gratuità verso il fratello.
San Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, ha parlato con vigore unico della risurrezione di Gesù e poi s’è posto il problema di come risorgiamo noi. Per questo ricorre ai principi della nostra esistenza, che vede la presenza del primo Adamo (“il primo uomo… fatto di terra”), con un corpo “animale”, e del “secondo uomo” con un corpo “spirituale”, che “viene dal cielo”. “Come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste”. Dunque la nostra vita non è destinata ad estinguersi ma continuerà, in modo che “saremo simili all’uomo celeste”. Se il modo come ciò avverrà ha bisogno di ulteriore spiegazione, è chiaro almeno il riferimento a quel modo di essere, dell’“uomo celeste”, a cui noi “saremo simili”. Due punti sono acquisiti e confermati: la solidarietà con la condizione di Gesù, uomo celeste, e il nostro destino, che si conclude nella nostra risurrezione.
San Luca continua a offrirci quegli insegnamenti che trovano posto nel grande contenitore del discorso che in Matteo era “della montagna” (Mt 5-7) e in Luca viene anche chiamato “del pianoro” (Lc 6,17: Gesù “si fermò in un luogo pianeggiante”, dove trova posto “gran folla”). Il tema è quello dell’amore, che Gesù vuole vedere praticato verso i nemici, senza che si attenda una corrispondenza e nemmeno la restituzione del dovuto. Se la nostra bontà sa essere praticata solo come una resa per il bene ricevuto, non sa realizzare nulla di più di quel che fanno anche i peccatori. “Amate invece i vostri nemici, fate del bene senza sperare nulla… e sarete figli dell’Altissimo”. E questo non è niente di straordinario, bensì solo imitazione della bontà tenerissima di Dio. L’esortazione infatti culmina nella ricompensa “grande”: “e sarete figli dell’Altissimo… benevolo verso gli ingrati e i malvagi”.
Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?
Comprendiamo subito che Gesù non dice di non amare quelli che ci amano, ché anzi non amare chi ci ama è colpa grave di mancanza di riconoscenza. D’altra parte è usuale e spontaneo proprio ricordare quanto bene riceviamo sia dal Signore sia dai genitori, benefattori e tanti altri, per ricordare il dovere della riconoscenza. Il problema sorge nel confronto degli estranei e addirittura degli avversari o nemici. Ci sono due motivi per rivolgere la nostra benevolenza a questi fratelli e sorelle: il primo è sempre l’esempio di Gesù, generoso proprio con i nemici, e poi viene un senso di equità, che ci impegna a usare con gli altri l’atteggiamento dell’indulgenza che desideriamo tanto per noi. Certo, bisogna rinunciare al criterio della parità dei comportamenti, perché sarebbe proprio il rifiuto del sistema fatto proprio da Gesù. Quando egli diceva “amico” a Giuda che viene per consegnarlo ai nemici, parlava sul serio, anche se Giuda stesso non riuscì a valutare la profondità del dono. Dunque è attraverso Gesù che il dono/perdono diventa grande strumento di redenzione.
Vostro don Giuseppe Ghiberti