Domenica 23-10-2022 – XXX Domenica T.O. – Anno C – Settimanale AMCOR
Cari soci e amici dell’Amcor,
le letture di questa domenica 23-10-22 proseguono la tematica di domenica scorsa soffermandosi sull’atteggiamento interiore che porta alla preghiera e sulla giustizia di Dio.
Il Siracide è opera tradotta in greco nel 132 a.C. dal nipote dello scrittore del testo Gesù Ben Sira, maestro di sapienza a Gerusalemme, che scrisse nel II secolo a.C. L’autore in ebraico si chiama Ben Sira (figlio di Sira) e in greco Siracide da cui il nome del libro. I contenuti del brano offerto oggi conservano e ripropongono la forza del messaggio profetico di Amos e di Isaia che erano vissuti nel secolo VIII a.C.. La parola di Dio attraversa intatta i secoli.
Il testo ci conferma che la preghiera per giungere a Dio deve essere povera, vissuta cioè secondo la giustizia del cuore, per poter arrivare fino a Dio. Dio è “povero” perché, come dirà Paolo, Dio in Gesù “svuotò se stesso / assumendo una condizione di servo…” (Fil 2,5-8)
Don Giuseppe ci dice che il Siracide è: “un canto delicato sulla giustizia del Signore, imparziale e misericordioso, sensibile a chi ha più bisogno di ogni altro di essere ascoltato e sostenuto.” Prosegue Don Giuseppe: “Qui è il Signore, l’Altissimo, giudice sensibile, che accoglie la preghiera del povero e interviene per ristabilire l’equità…”
Nella seconda lettera a Timoteo l’apostolo Paolo vede la sua morte, ormai vicina, come l’offerta sacrificale di tutta la sua vita. E’ il discorso di addio nel quale suona forte la consapevolezza di Paolo di essere rimasto fedele al Signore che lo ha chiamato e inviato, fedele nella preghiera e nella testimonianza. Don Giuseppe sottolinea: ‘Egli può riassumere il suo passato dicendo – come vorremmo poter dire anche noi al termine del nostro cammino – “ho combattuto la buona battaglia…ho conservato la fede”.’
Il brano del Vangelo di oggi si presenta in continuità con quello di domenica scorsa. Don Giuseppe ci guida ricordandoci che nel racconto: “…del vangelo di Luca è riportata una parabola pronunciata da Gesù proprio mentre sta concludendosi il suo viaggio verso Gerusalemme, la capitale del giudaismo, e incorniciata proprio nel recinto del tempio.” La parabola narra del fariseo e del pubblicano raccolti in preghiera nel tempio.
Il Fariseo si presenta come colui che adempie alla lettera le prescrizioni rituali, con ricche offerte, e che per questo si aspetta un adeguato riconoscimento da parte di Dio. Il pubblicano sente di non avere nemmeno il diritto di accostarsi all’altare e nella sua disperazione si affida totalmente alla misericordia di Dio. Sembra di udire la stessa supplica di Davide quando il profeta Natan andò da lui che era stato con Betsabea: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; / nella tua grande misericordia / cancella la mia iniquità.” (Sal 51/50, 3).
Don Giuseppe sottolinea che Gesù è proprio di questo povero pubblicano “che si interessa, commosso, e dichiara che “tornò a casa sua giustificato”, a differenza dell’altro.” Il Fariseo porta, infatti, al tempio la sua ricchezza di doni e norme applicate, il pubblicano porta la sua coscienza del bisogno di essere perdonato. Di fronte a questi due modelli di preghiera e di sacrificio Dio sceglie la preghiera dell’oppresso, di chi è consapevole di non potersi salvare da solo.
Il Salmo è attribuito a Davide in un momento particolare della sua vita. Egli, infatti, per sfuggire a Saul che vuole ucciderlo, si rifugia in territorio filisteo dove è riconosciuto e preso prigioniero. Si salva fingendosi pazzo (v. 1 Sam 21,11-16). Dopo essere stato liberato intona questo inno di ringraziamento perché tutto è nelle mani di Dio.
Benedirò il Signore in ogni tempo, /
sulla mia bocca sempre la sua lode. /
Io mi glorio nel Signore: /
i poveri ascoltino e si rallegrino. /
Il volto del Signore contro i malfattori, per eliminarne dalla terra il ricordo. /
Gridano e il Signore li ascolta, /
li libera da tutte le loro angosce. /
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, /
egli salva gli spiriti affranti. /
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi; /
non sarà condannato chi in lui si rifugia. (Sal 34/33, 2-3; 17-18; 19-23)
Ripetiamo questo ringraziamento consapevoli che il Signore ci libera dalle angosce, che è vicino a chi ha il cuore spezzato, che salva gli spiriti affranti. E’ una preghiera che riempie il nostro silenzio, che si rivolge alla misericordia del
Signore, che dobbiamo ripetere per poterla sentire come nostra anche quando il nostro cuore è vuoto e spaventato.
Insieme a Don Giuseppe, Suor Maria Clara, Mariella, Patrizia e tutto il Consiglio ci uniamo nella supplica per la pace.
Un grande abbraccio.
Contardo Codegone
P.S. Vi ricordo che sabato 22-ottobre-2022, alle ore 15,30 presso la Chiesa del Santo Sudario, si terrà l’incontro guidato dal prof. Bruno Barberis sul teme “L’importanza della formazione liturgica nelle recenti lettere apostoliche di Papa Francesco sulla liturgia”.
XXX Dom. t. Ord. C – 23. 10. 22
Letture: Sir 35,15b-17. 20-22; 2 Tm 4,6-8. 16-18; Lc 18, 9-14
La prima lettura di oggi, è desunta da un autore dell’Antico Testamento, il Siracide, ed è un canto delicato sulla giustizia del Signore, imparziale e misericordioso, sensibile a chi ha più bisogno di ogni altro di essere ascoltato e sostenuto. Chi commuove maggiormente, quando prega, è chi non ha probabilità e speranza di essere ascoltato con un po’ di attenzione affettuosa. Qui è il Signore, l’Altissimo, giudice sensibile, che accoglie la preghiera del povero e interviene per ristabilire l’equità: “non è parziale a danno del povero”. Il tema non è raro anche nelle letterature antiche; la Bibbia lo evidenzia in una tonalità che fa intuire il coinvolgimento diretto da parte del cuore di Dio. Il procedere della rivelazione dimostrerà fin dove giungerà l’intervento del Dio amorevole nei confronti del povero e dell’oppresso.
Dalla seconda Lettera a Timoteo sentiamo una trepida parola confidenziale di Paolo, che avverte essere “giunto il momento che io lasci questa vita”. Egli può riassumere il suo passato dicendo – come vorremmo poter dire anche noi al termine del nostro cammino – “ho combattuto la buona battaglia… ho conservato la fede”. Questa consapevolezza gli dà il coraggio di attendere, per l’ultimo giorno, “la corona di giustizia”. Veramente i ricordi recenti di Paolo non sono incoraggianti: “Tutti mi hanno abbandonato”, ma il Signore gli ha dato forza. “Così fui liberato dalla bocca del leone”. E ora attende solo che il Signore lo “porti in salvo nei cieli, nel suo regno”. Paolo è certamente, fra i grandi apostoli missionari della primissima stagione del cristianesimo, quello di cui conosciamo maggiormente le circostanze di molto suo agire, ma sfoghi come quelli che udiamo in questi documenti tardivi di quella stagione ci fanno intravvedere la gravità dei sacrifici che il Signore chiese ad anime ardenti come la sua.
Dal racconto del vangelo di Luca è riportata una parabola pronunciata da Gesù proprio mentre sta concludendosi il suo viaggio verso Gerusalemme, la capitale del giudaismo, e incorniciata proprio nel recinto del tempio. In quel luogo si dovrebbe pensare solo al culto del vero Dio, il Signore del popolo e della storia di tutto Israele e dell’umanità intera. Invece due tipi, protagonisti della parabola, pensano al Signore solo in riferimento a sé, alle proprie esperienze e comportamento. Gesù incomincia dal primo, tronfio e consapevole di sé, che si rivolge al Signore solo per lodare la sua persona e il suo agire – proprio super esemplari, a suo parere – a differenza di quell’altro, là dietro, che è meglio non sprecare il tempo a parlarne. Anche se il suo soliloquio si arresta lì, è evidente che è lui che merita massima lode e rispetto. Ma c’è ancora l’altro, “pubblicano”, considerato pubblico peccatore, che non merita attenzione da nessuno. Neppure da sé stesso, e difatti con occhi bassi sa solo dire: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Di questo poveretto Gesù si interessa, commosso, e dichiara che “tornò a casa sua giustificato”, a differenza dell’altro.
Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato
Quanto è facile, per me, ora, pronunciare questa sentenza. E come è vero che “umiliarmi, davvero” è l’ultima cosa che programmo e accetto. Non è vero che non ci siano esempi (forse un po’ rari, purtroppo): Gesù è il primo e il più convincente. E poi molti uomini e donne hanno accettato l’invito a essere suoi discepoli proprio cominciando da questa scelta, realizzata a modo del pubblicano, senza smancerie e sospiri – solo, amando e cercando di imitare.
Vostro Don Giuseppe Ghiberti
Trovate tutte le omelie di don Giuseppe al seguente link:
http://www.amcor-amicichieseoriente.org/approfondimenti/il-settimanale-di-don-giuseppe/