Domenica 17-3-2024 -V di Quaresima B – Settimanale AMCOR
Cari soci e amici dell’Amcor,
le letture di questa domenica 17-3-24 hanno a tema di fondo il ‘mistero di Gesù’.
Sviluppo la mia riflessione su tre punti:
- Grande ricchezza hanno le letture di oggi, vi rimando al commento approfondito di Don Giuseppe dal quale riprendo alcuni messaggi.
-‘Celebrando l’Eucaristia, alla consacrazione il sacerdote pronuncia le parole sulla “nuova ed eterna alleanza”. Sono parole di Gesù, ma lui stesso le riprendeva dal profeta Geremia, come sentiamo oggi dalla prima lettura.’
-Particolarmente impressionante è l’affermazione riguardante Gesù: “pur essendo Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che patì”.’
-‘ Il tema dell’insegnamento che la sofferenza porta nell’esperienza umana ha una mesta diffusa presenza sia nella letteratura profana greca sia nella letteratura biblica. Si parte da una constatazione modesta del «patire [che] dà senno allo stolto» (Esiodo) per passare al proverbio «Se non soffri non impari» (riportato da Platone), oppure (secondo una finale di favola di Esopo) «le disgrazie diventano insegnamenti per gli uomini».’
-‘ Tutto l’atteggiamento di Gesù fu caratterizzato dall’ubbidienza al Padre e così egli poté diventare causa di salvezza per quanti ubbidiscono a lui. Ma l’ubbidienza al Padre fu appresa attraverso la sofferenza: è l’insegnamento del nostro versetto 8.’ (Eb 5,8)
2) Geremia nasce intorno al 650 a.C. e muore intorno al 586 a.C.. Ricordo che il Deutero Isaia era nato circa un secolo prima. Geremia era di famiglia sacerdotale e conosciamo bene la sua vita per i racconti autobiografici contenuti nel suo libro.
Visse all’epoca del re Giosia, che regnò 31 anni (dal 640 al 609 a.C.). Il periodo di Giosia fu caratterizzato da profonde riforme religiose. Giosia distrusse i templi di Baal, uccise tutti i suoi sacerdoti e decretò che solo a Gerusalemme potessero essere fatti sacrifici a Dio per evitare il rischio di sacrifici ad altri dei.
Giosia morì a Meghiddo (l’Armaghedon dell’Apocalisse di San Giovanni cap. 16,16) forse per opera del faraone Necao probabilmente di passaggio da quelle terre ed in guerra con gli Assiri. La sua morte apparve incomprensibile essendo la morte violenta di un giusto.
Geremia visse poi il periodo tragico nel quale si preparò e si compi la rovina, da lui annunciata, del regno di Giuda. Nel 605 a.C. Nabucodonosor impose il suo dominio sulla Palestina e, successivamente, conquistò Gerusalemme nel 597 e poi la distrusse, con la deportazione di molti, nel 586 a.C..
Geremia, accusato di disfattismo, rimase a Gerusalemme e, probabilmente, fu deportato nel 586 a.C. in Egitto dove morì.
Il dramma della vita di Geremia non è causato solamente dagli avvenimenti nel quale fu coinvolto, ma anche dal suo animo sensibile. Egli infatti fu inviato “per sradicare e demolire, / per distruggere e abbattere, / per edificare e piantare. (Ger 1,10).
Ha dovuto predire soprattutto sventure. I suoi dialoghi interiori con Dio sono pieni di grida di dolore e di disperazione: “Perché il mio dolore è senza fine?” (Ger 15,18), “Maledetto il giorno in cui nacqui. (Ger 20,14 e seg.).
Il suo angosciato rivolgersi a Dio e il sentirsi profeta inascoltato lo fa accostare alla figura di Gesù.
Vanno considerati a parte i capitoli 30 e 31 che sono un libretto poetico di consolazione e che sono attribuiti a Baruc segretario di Geremia (da questi capitoli è tratto il brano di oggi).
- Il grande poeta greco Esiodo, ricordato da Don Giuseppe, è collocato nel secolo VIII a.C. (da Erodoto ritenuto grosso modo contemporaneo di Omero). Le sue opere principali sono: ‘Le opere e i giorni’ e la “Teogonia’.
La ‘Teogonia’ (che significa la genesi degli Dei) “segna un momento fondamentale nello sviluppo della poesia e della cultura greca, perché, certo temporalmente successiva all’ Iliade e più vicina all’Odissea, essa inaugura un tipo di poesia molto diversa: quella che descrive il Principio, il primo giorno del mondo. …stabilisce sin dall’apertura un parallelo implicito tra l’inizio dell’universo e quello del canto, della poesia.” (Piero Boitani, “Dieci lezioni sui classici”, Il Mulino, 2017, pag. 69). La Teogonia si può accostare, dunque, al primo capitolo della Genesi biblica o ai suoi paralleli nelle culture sumero-babilonesi ed egiziana.
Il Salmo richiama il tema del “Miserere” (“Pietà di me, o Dio, nel tuo amore” Sal 51,3). E’ il richiamo alla nostra povertà e alla misericordia di Dio. Di fronte al nostro cuore pentito il Dio della nostra salvezza creerà in noi un cuore puro e ci donerà il suo Santo Spirito.
RIT: Crea in me, o Dio, un cuore puro.
3-Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
4-Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
12-Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
13-Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
14-Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
15-Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno. Sal.51 (50)
Sento profondamente il bisogno di chiedere a Dio: “Rendimi la gioia della tua salvezza”. Qualche volta ci sentiamo sopraffatti dal male, dal dolore, dall’angoscia per questo gridiamo: “Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito”.
Nel ricordo di Don Giuseppe, insieme a Elena nostra nuova Presidente, con Suor Maria Clara, Mariella, Patrizia e tutto il Consiglio, uniti nella preghiera per la pace, Vi invio un grande abbraccio.
Contardo Codegone
P.S.
1) Ricordo le S. Messe del primo martedì del mese: 9 aprile (e non 2 aprile per la vicinanza con la S. Pasqua), 7 maggio e 4 giugno (Chiesa S. Sudario ore 18.00).
2) Ricordo gli Esercizi Spirituali del 17-18-19 maggio 2024 a Susa (Villa San Pietro), Tema: “Dal Nilo al Nebo, Mosè alla ricerca di Dio”. Relatore Don Priotto.
3) Ricordo, infine, Le iniziative di preghiera della Confraternita presso la S. Sindone in Duomo (ore 18,00 gli ultimi lunedì del mese: 25 marzo, 29 aprile, 27 maggio 2024).
Settimanale AMCOR
17. 3. 2024 –V Dom. Quar. B
Letture bibliche: Ger 31, 31-34; Eb 5, 7-9; Gv 12, 20-33.
Celebrando l’Eucaristia, alla consacrazione il sacerdote pronuncia le parole sulla “nuova ed eterna alleanza”. Sono parole di Gesù, ma lui stesso le riprendeva dal profeta Geremia, come sentiamo oggi dalla prima lettura. E in questa alleanza tutto sarà iniziativa divina: Dio approfondirà il suo rapporto con il suo popolo, al punto che “tutti mi conosceranno”. Ci sarà la reciprocità totale di doni e di impegni: “Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”. Una volta le leggi si scrivevano su pietra, ora Dio dice che “la scriverò sul loro cuore”, “tutti mi conosceranno”. E’ uno dei passaggi più belli e impegnativi dell’Antico Testamento, che ci dà un po’ la misura della delicatezza dell’amore di Dio. Non pensiamo che questo valga solo per i rapporti personali, “privati”, con il Signore, perché tutto ciò che è comunitario ha le radici nel privato, e ciò che parte dal privato ha un riflesso e una conseguenza nella/e comunità.
Nella lettera paolina agli Ebrei troviamo un piccolo densissimo brano. Particolarmente impressionante è l’affermazione riguardante Gesù: “pur essendo Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che patì”. Da questa “ubbidienza” gli è venuta l’efficacia totale nell’intervento “per tutti coloro che gli obbediscono”. E’ il mistero dell’incarnazione e della salvezza universale che ci viene incontro con frasi semplicissime, ma che ci muoiono in bocca non appena iniziamo a pronunciarle.
Il brano giovanneo del vangelo narra uno degli episodi finali della “vita pubblica di Gesù”, prima dell’ultima cena e poi della passione. L’occasione è insolita e rappresenta un allargamento del pubblico che attornia Gesù: alcuni “Greci”, che sono ebrei, ma abitano fuori della terra d’Israele (forse un po’ gli “italiani d’America”). Sono qualcosa tra il timido e il deciso: non hanno nessun rapporto che favorisca l’avvicinamento a Gesù e si affidano al nome di due apostoli, Filippo e Andrea (vengono anch’essi dalla Galilea, ma di educazione probabilmente mista, un po’ greca, almeno a giudicare dal loro nome), con una richiesta che continua a girare in testa anche a me, anche ora: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Forse tra di voi molti (come me) hanno detto: “Oh che bello, voglio venire anch’io”. E invece è ancora il momento di aspettare, perché Gesù dice che occorre che “il chicco di grano, caduto in terra”, muoia, per portare molto frutto. Egli va incontro a questi “greci” e parla di sé stesso, della sua passione che è alle porte, e paragona sé stesso a un chicco di grano: porta frutto solo se cade in terra e muore. Non è certo un discorso facile da accettare, nemmeno per Gesù stesso che lo fa. Eppure egli rinuncia a chiedere al Padre che lo “salvi da quest’ora” e si mette totalmente a sua disposizione, per la gloria del suo nome. E il Padre risponde con una voce dal cielo, che conferma che quanto sta accadendo è per la gloria. Ed è Gesù, ora, che reagisce a questa parola con una affermazione misteriosa riguardante la passione che è alle porte: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E’ nella croce il segreto della salvezza per tutti!
Pur essendo Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che patì – Quanti pensieri ci vengono suggeriti da questa affermazione. Non passiamo oltre, mettiamoci di fronte a questo quadro, naturale e pure assurdo, che ci viene di chiamare crudele: il Figlio si mette alla pari con le condizioni: l’ubbidienza spiega l’accettazione totale della più radicale sofferenza; la sofferenza a sua volta è maestra di ubbidienza. La ragione ultima della coesistenza dei due aspetti è da trovare ancora nella ineffabile unione delle componenti del mistero del Figlio-sommo sacerdote.
Il tema dell’insegnamento che la sofferenza porta nell’esperienza umana ha una mesta diffusa presenza sia nella letteratura profana greca sia nella letteratura biblica. Si parte da una constatazione modesta del «patire [che] dà senno allo stolto» (Esiodo) per passare al proverbio «Se non soffri non impari» (riportato da Platone), oppure (secondo una finale di favola di Esopo) «le disgrazie diventano insegnamenti per gli uomini». L’Antico Testamento arricchisce questa tematica con i toni della sua religiosità: «Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione. Perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto» (Prov 3,11.12) e ancora «chi non ha avuto delle prove poco conosce» (Sir 34,10). La spiritualità anticotestamentaria giunge fino a fare di questa consapevolezza un passaggio nel cammino verso Dio. Il ricordo va spontaneo all’esperienza di Geremia e a quella di alcuni salmisti: «Prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua parola… Bene per me se sono stato umiliato, perché impari a obbedirti» (Sal 119,67.71). Anche Gesù, il Figlio, è entrato in questa dinamica: egli ha condiviso talmente la condizione umana da accogliere anche questo servizio che gli veniva dalla sofferenza.
Pur assoggettato a questa legge, il Figlio si differenzia per la chiarezza della sua scelta, compiuta con una determinazione che la Lettera enfatizza per evidenziarne l’esemplarità eccezionale: «Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia e si è assiso alla destra del trono di Dio» (12,2). Ciò non impedisce all’autore della nostra Lettera di affermare che Gesù ha accettato l’educazione che la sofferenza gli dava in funzione dell’ubbidienza: a tanto è giunta l’assunzione del criterio di solidarietà verso gli uomini.
L’insegnamento termina all’obbedienza, genera ubbidienza: nel momento in cui l’esperienza del patire si fa tanto insopportabile da suggerire il rifiuto, in quel momento dalla tribolazione giunge il suggerimento all’accettazione della volontà stessa che ha inviato il soffrire. In Gesù s’è realizzato un principio duro e pur provvidenziale, che è noto come legge per tutti. Il suo esempio è quindi da seguire senza riserve. Anzi, suggerisce il ragionamento, la cosa vale «a fortiori», perché Gesù ha accettato al massimo grado la volontà di chi gli inviava la sofferenza e perché lui era Figlio, e senza peccato. E in questo modo egli è in massimo grado «capace di sentire compassione», come si leggeva poco sopra, al v. 2.
Nei vv. 7-10 del cap. 5, l’autore insiste sulla partecipazione di Gesù al destino umano di sofferenza, che l’ha portato alla morte, anche se ne fu poi liberato. Tutto l’atteggiamento di Gesù fu caratterizzato dall’ubbidienza al Padre e così egli poté diventare causa di salvezza per quanti ubbidiscono a lui. Ma l’ubbidienza al Padre fu appresa attraverso la sofferenza: è l’insegnamento del nostro versetto 8.
Gesù è stato sempre ubbidiente al Padre. Ci teneva anche a dirlo, perché lo vedeva come l’unica risposta giusta alla missione che il Padre gli aveva affidato. Nel Nuovo Testamento questa verità è affermata da tutti gli autori, anche se non sempre esattamente con le stesse espressioni. In alternativa con il linguaggio di ubbidienza risuona quello equivalente di fare la volontà di Dio o del Padre. Nei vangeli sinottici è riportata l’esclamazione pronunciata nell’orto degli ulivi, in una delle ore più difficili della vita di Gesù: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42)[1]. In Giovanni risuona il principio programmatico: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (4,34). È però Paolo che ci dà il parallelo più illuminante, quando tenta una descrizione del mistero di Gesù nell’inno della Lettera ai Filippesi: «apparso in forma umana, umiliò sé stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (2,7-8). C’è dunque un convincimento che ha le radici nell’intenzione stessa dichiarata da Gesù e che la predicazione primitiva ha conservato in memoria ed evidenziato: Gesù ha assunto come principio primo del suo agire l’adesione totale e amorosa alla volontà del Padre.
C’è un altro passo che ha affermazioni simili, limitatamente a Gesù: «Era giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li guida alla salvezza» (Eb 2,10)[2]. Manca solo l’ubbidienza, perché ciò che rende perfetto è la sofferenza; perciò manca anche la funzione esemplare, ma è accentuata l’efficacia di salvezza.
Vostro Don Giuseppe Ghiberti
[1] Il dialogo col Padre è riportato in due momenti. Nel primo Gesù diceva: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (v. 39). Probabilmente l’autore della nostra Lettera pensa ai due momenti di questo dialogo, quando dice che Gesù «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte» (Eb 5,7). Affermando che egli «fu esaudito per la sua pietà», il nostro autore si stacca dall’episodio del Getsemani e anticipa il risultato finale di tutto il cammino terreno di Gesù. Si veda più avanti, al § 4.
[2] Il «capo» può essere il capofila o, come traduce Manzi, il «pioniere». Queste sfumature non sono determinanti per il senso che stiamo cercando.
Trovate tutte le omelie di don Giuseppe al seguente link: http://www.amcor-amicichieseoriente.org/approfondimenti/il-settimanale-di-don-giuseppe/